Tiziana Tricarico su “IL Mattino” di Napoli

Memorie, ambiguità, sogni, trasparenze, plasticità, definite dall’assemblaggio di oggetti, ritagli fotografici, impasti di colore, fanno da sempre parte dell’arte di Rosaria Matarese. Le sue pitto-sculture o sculture da parete, trascinano lo spettatore dentro una storia. E lo spingono a riflettere su quel labile confine tra realtà e finzione. Questo accade anche con “Partartemide”, la personale dell’artista napoletana curata da Dario Giugliano, inaugurata ieri nella Sala Mostre al piano terra del Museo Archeologico Nazionale.

L’esposizione – proposta dal Servizio Educativo – presenta fino all’11 gennaio un corpus di opere ispirate alla statua di Artemide efesia. “Era un progetto che avevo in mente già da un po’ – racconta Matarese – mi piacciono i giochi di ambiguità tra oggetto e immagine, tra figure che sono tutto e il contrario di tutto allo stesso tempo”. Esattamente come l’Artemide di Efeso statua ricca di decorazioni (assai lontana dall’iconografia della dea con arco e frecce), il cui busto regge quattro file di mammelle, simbolo di fecondità o al contrario, forme che rimandano alla sessualità maschile. Ecco allora un’aura “patafisica” (intesa come scienza delle soluzioni immaginarie – seguendo la definizione di Jarry – scienza del particolare e delle leggi che governano le eccezioni) avvolgere la statua: l’eccezionalità dei materiali, alabastro e bronzo, di cui è fatta, il suo aspetto ieratico ma eccessivo, la straripante abbondanza delle figure simboliche di cui è contornata e l’ininterrotto gioco di interpretazioni cui ha dato vita quella corona di pendenti, hanno ispirato le cinque opere in tecnica mista dell’artista napoletana, membro dell’Istituto Patafisico Partenopeo.

A creare un legame tra presente e un remotissimo passato lo scatto di Luigi Spina che ritrae la statua e che Matarese ha fatto stampare su acetato per sottolineare, con la trasparenza, il gioco di rimandi. A sorvegliare le opere un occhio -un “praticabile” come quelli realizzati negli anni sessanta – che funge da spettatore silenzioso, a sua insaputa scrutato a sua volta. “Le opere ben sintetizzano il linguaggio di Rosaria Matarese – scrive Marco De Gemmis nella presentazione alla mostra – spesso visionario creatore di “macchine”, stupefacenti talvolta fin dal titolo (qui al Mann incontriamo “Macchina pataafisiecologica per la produzione del latte… O no?”): nelle quali può esserci posto per tutte le materie e ogni sorta di oggetto: il più sorprendente e il più vile, quest’ultimo accolto come è stato trovato, o esaltato semmai da una sgargiante doratura”. Tiziana Tricarico (Il Mattino, 11 dicembre 2015)

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