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 Rosaria Matarese e “L’Uroboro (che) si rigurgita”

di Roberta Andolfo

Si va avanti e indietro fra le sale, come stanze private delle strutture/relitti/rovine dell’artista, cercando non tanto una direzione, e di certo non un’univoca e sintetica assimilazione di quel tutto che così tanto difende il suo essere diversificato e mutabile, bensì il sostrato del diverso. La sottodimensione in cui non solo gli assemblaggi, i disegni e le variegate installazioni comunicano con noi, ma noi stessi comunichiamo con loro, agendo sullo status quo, perturbandolo e modificandolo in parte, senza che l’identità donata dall’artefice venga irreparabilmente dissolta.Si tratta di quello spazio della coscienza in cui la frammentata e misteriosa realtà s’incontra con l’opera, ed entrambe s’incontrano e scontrano con il fruitore, ma non in quest’ordine, bensì all’interno di uno scambio simultaneo ed illogico, con il quale il tempo ed i sistemi preordinati non hanno nulla a che vedere. È in questo angolo senza spigoli predefiniti che si trova l’essere di ogni lavoro d’arte. Dichiarazione di intenti, politica, schieramento in favore del senso di umanità e del sano erotismo che lo perpetra, contro il disfacimento, la guerra, gli insoluti e non equi rapporti sociali; questo riportano le “macchine” creative di Matarese, ma nella lingua propria dell’umano sentire ed interagire, in quella sfera di elementi frammisti e senza regole che compongono il nostro imperscrutabile pensiero. Qui si giunge sino a lavori recentissimi, come i Pratascabili (2015) i quali altro non sono se non rinnovati scorci di teatrini ambigui ed insieme compendiari, che ispirano un interessante dialogo con alcuni dei frammenti di quello stesso Mario Persico il quale, insieme alla protagonista di tale mostra e agli altri, ha animato i grandi e fertili entusiasmi di Linea Sud. Ma l’artista è anche acuto critico. Ella ci parla di quanto sia normale alzarsi al mattino e già, indipendentemente dalla propria volontà o consapevolezza, iniziare a fare politica. Soltanto vivendo. Sarà forse scontato riflettere sul fatto che tutti noi agiamo e mettiamo in marcia la mente ancor prima di operare delle scelte razionali? Le parole dell’artefice degli ex-voto (2009), in cui si scava con amara ironia nell’orrore del traffico di organi, ci ricordano anche questo; la scelta si compie istintivamente, ancor prima che, mediato dalla ragione, il fondo della classificazione e di una cultura rimaneggiata ad hoc riemerga in noi, come fa ogni giorno.

Impossibile per lei non far scorrere all’interno di sé, di quel flusso di vita che va a “testimoniare la propria presenza nel mondo”, le oscenità umane ed il corrotto decisionismo globale generatore di sofferenze e catastrofi, senza reagire a tutto questo, senza assimilarlo a quel prodotto spirituale in continuo divenire che sempre è l’arte. Ma non manca mai un’edificante speranza, la quale si costruisce nello scambio con il fruitore, mettendo in atto il concetto di opera “praticabile” (o “aperta”); ciò che l’artista considera “struttura modificabile”. Camminando lungo il percorso si medita fin sugli albori di tale sentiero creativo, con i grandi supporti di legno degli anni ’60 in cui la pittura del pigmento si combina con quella “dell’elemento” e diverse materie intervengono sulla conformazione di astratte icone terrose ed imponenti. Si passa poi ai collage ed ai pastelli a cera su carta e su legno in organismi a tecnica mista, come nel grandioso Il grido supremo del giallo (di Napoli) (2008) o Urli infiniti di occhi e di mani (2007).
E tra il fascino dello spontaneo e ad un tempo ben studiato aspetto del corpus di installazioni le quali culminano in diverse apoteosi dello sberleffo, e la bidimensionalità, in realtà ben lungi dall’essere veramente tale, dei dipinti, il calderone dei miti supremi e ancestrali, mescolati con tradizioni e sentimento d’appartenenza alla propria terra, non ribolle mai in modo sterile e provinciale. Anzi, la fantasia e la ponderazione creatrice si nutrono di tutte queste componenti per superare la canonica ed idealizzata (nel bene e nel male) percezione del reale, per depurarla dalle apparenze, ricercando nell’uomo un’attitudine più originaria che sia in grado di fargli scoprire il centro delle cose, portandolo ad individuarne la ricchissima stratificazione, a toccarle in profondità.
Inoltre, la teatralità insita nella struttura di Matarese mantiene l’opera, ad esempio negli Haec signa manent (2015), sospesa su di una sorta di proscenio. Sono le figure emblematiche in primo piano (come quella delle gambe divaricate poste al contrario, ispirata a Bosch, con l’aggiunta della maschera/feticcio) a fare della cornice il limite, attraversabilissimo, di tale proscenio, attraverso l’uso di “inquadrature” angolate o, in questo caso, dai bordi strombati ad accogliere lo sguardo ed il coinvolgimento dello spettatore, traslati in anditi su cui le calde anime, sagome di carta, nate altrove, sono ricucite e ricomposte, all’interno di quello che l’artista ha chiamato, giustamente, luogo altro. La sensazione che man mano iniziamo a focalizzare, è di un doppio gioco di “prospettiva”; “per esorcizzare il tutto in una raccapricciante scena primaria ove impegno etico e fuga dalla realtà si coniugano in una ossimorica immaginazione”, scrive puntualmente Mario Franco.
A nostro avviso, più che nella significativa inquietudine di bambole e manichini “cadavere”, è nei lavori grafici, talvolta inscritti in composizioni di scatole o scomparti di vario genere, che si affrontano i più profondi recessi di ciò che sottende a questo tipo di operato. Ed è proprio sul finire che, passando per un’accesa teoria di Studi di Fisiognomica (2011), due “striscioni” di carta aderenti al muro dell’estrema sala ed estesi al pavimento, più ascendenti che discendenti, suggellano lo sviluppo di un simbolo atavico che il pastello ha reso materia. Esso si mostra sapientemente convogliato dall’autrice verso il sunto di tutte le precedenti e successive energie, nel circolo dell’eterno ritorno, nella sostanza del mondo che addensandosi e destrutturandosi (in sempre modificabili opere) si auto-metabolizza e rigurgita all’infinito, come l’Uroboro.

 

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